venerdì 9 luglio 2010

Rossana Baccaglini - Un'altra nascita

In questi giorni, come ad ogni fine anno scolastico, mia madre sta mettendo un po' di ordine tra le sue cose. Tra un disegno e un lavoretto dei bambini, ha trovato un numero della rivista CISL Scuola. Quello che segue è un articolo di Rossana Baccaglini tratto dal numero 8-9, anno XII, 7 Dicembre 2009.

Rossana Baccaglini - Un'altra nascita

Pubblichiamo le prime e l’ultima pagina di un lungo Racconto/Verità che parla di A, di sua madre Sara, della loro storia. Una storia di dramma e di luce, quella di vite – tante – che devono fare i conti con una qualche mala sorte che può capitare - improvvisamente e incredibilmente – a partire da una nascita. Ma è anche la storia di tenui trame do solidarietà. In più è un racconto di ricerca e di formazione costruito su un’amicizia tutta al femminile. In ogni caso una storia non straniera al Natale.

Fu un avvenimento inatteso, improvviso, mentre fuori, nel buio della notte, cadeva lenta, bianca, la neve: mio Dio che voglia di gridare.
Da allora sono trascorsi diciotto anni, un mese, cinque giorni, dieci ore, sei minuti e una manciata di secondi. Gli stessi che ho impiegato per volgere lo sguardo dalla neve al suo volto, dal suo volto ai suoi occhi, dai suoi occhi al pianto del suo cuore, e capire che da qual momento la sua vita non sarebbe stata mai più la stessa.
Se solo fossi rimasta con lo sguardo a guardare la neve, forse la notte non sarebbe planata sul dolore, ma su un giorno pieno di luce e di colori.
Nessuno pensa a quanto siano importanti nella vita di un uomo i secondi. Il dramma che accade in pochi secondi può diventare il dramma di una vita intera. Per Sara il dramma è, ora, di 123.456.789.000 secondi, perché tale è il conto degli anni, i mesi, i giorni, le ore e i minuti che sono trascorsi dalla nascita di suo figlio ad oggi.
Nella prima manciata di quei 123 miliardi di secondi, che da allora continuano ad accumularsi, la vita di Sara si è come fermata, prigioniera del momento in cui una violenta espulsione emorragica liberò il suo bambino dalle calde acque che sino a quel momento lo avevano riscaldato nel suo ventre. Il resto del tempo è stato per lei solo un moltiplicatore di quei secondi; dopo non le è stato più possibile immaginare altro.

Il giorno dopo il parto entrai nella stanza d’ospedale e mi avvicinai al suo letto. Era stanca, sfatta nel volto ma sorridente, quasi contenta che tutto fosse finito. Mi chiese: l’hai visto?
Risposi: si! l’ho visto.
E ancor prima che mi chiedesse com’era, le dissi che era un bel bambino, piccolo ma bello, ben fatto, proporzionato. La rassicurai poi che non le stavo mentendo, che era proprio così. La notte l’avevamo trascorsa in bianco, io, suo marito e suo fratello. Dal vetro dell’incubatrice l’avevamo guardato a vista, per non perderlo, per impedire che Qualcuno lo portasse via. Così avevo ancora vivo il ricordo del suo bel visino. Non mi chiese nient’altro. Pensai allora che non sapesse nulla sull’accaduto della notte, e non le raccontai che nel silenzio della sala neonatale, insieme al marito e al fratello, lo avevamo battezzato, perché a lui - ci fu detto - la notte sarebbe stata incerta. Il padre, con commozione, aveva pronunciato le parole: bambino mio io ti battezzo, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e noi a rispondere: così sia. Perché lo facemmo? Ancora non so. Un gesto di carità, un atto di fede, o la speranza di strapparlo alla morte? Chissà.
Eravamo stati colti di sorpresa e lo stato d’animo che ci accompagnò nella breve funzione era comunque di sconfitta.
Poi, dal corridoio semibuio del reparto ci giunse una frase insperata: se supera la notte forse vivrà. Siamo al quinto piano, quasi in cielo. Si potrebbe accarezzare la luna, ma non c’è; nella mia testa c’è invece una giostra che gira, gira: ci sono luci, rumori; è notte, è mezzanotte. Tà tà bum, tà tà: come fuochi d’artificio, ma senza colori, dentro una notte assurda e distratta. È il mio cuore: bum, tà, tà tàm; la giostra gira, la mia testa gira. Ancora fuochi: bum tà tà tàm. E mi chiedo che festa è che giunge d’inverno e con la neve; dove si può morire fra le stelle e la luna, che non ci sono.
È l’una, respira, la testa gira. Sono le due, respira, la giostra gira. Sono le tre, le quattro, le cinque, respira. Sono le sei, è l’alba: mio Dio è vivo, la testa è ferma, il mio cuore respira.

Alcuni giorni dopo ritornai a farle visita. Vedendola mentre trafficava con la valigia le chiesi: cosa fai? Mi rispose: faccio la valigia, torno a casa.
Tiene tra le mani il foglio d’uscita e lo guarda assente. È un foglio leggero, bianco, con poche parole, che non confortano l’assenza del suo bambino fra le sue braccia. Mi dice che A è stato portato lontano, in un’altra clinica, più attrezzata; per curarlo, per strapparlo alla morte; almeno così le è stato detto. Anche loro, i medici, come noi, in quella prima notte, per impedire che Qualcuno lo portasse via: povero piccolino.
Mi chiede: com’è? Le rispondo: te l’ho già detto è bello, ben fatto, piccolo ma proporzionato, fidati. Sorride.
Non ha potuto vederlo, nemmeno per un attimo. Lei al secondo piano, lui al quinto. Lei stesa sul letto con una grave emorragia, lui con una grave lesione cerebrale. Questo l’epilogo, dopo mesi di attesa, di progetti, di emozioni. Lei e lui, lui nel ventre di lei; lei senza di lui ora che se ne ritorna a casa. Con la valigia e un foglio tra le mani: poche parole tracciano il loro futuro.
Con la valigia in una mano e il foglio nell’altra mi disse: e ora?
Le risposi: e ora cosa?
Cosa devo fare?
Tornare a casa, continuare a vivere e combattere.
Combattere cosa, chi?
La mala sorte.
Come?
Vedremo, dopotutto è vivo.
Si! È vivo, ma ho paura.
Mi porse poi la valigia e mi chiese di portarla a casa per lei. La presi fra le mani e le domandai: e tu dove vai? Mi rispose: a combattere la mala sorte.
Dopo queste poche parole uscì dall’ospedale e salì in macchina. Fece pochi chilometri, poi entrò in autostrada. Anche lei, come noi in quella prima notte, come i medici poi, in viaggio per impedire che Qualcuno lo porti via, per riprendere il suo bambino.
So che avrebbe voluto che quel viaggio non finisse mai. Lungo il percorso le immagini, allucinate a volte, si mescolavano ai suoi pensieri. Ogni tanto una lacrima a bagnare lo sguardo teso verso una strada diritta che affiancava campi e paesi a tratti ancora imbiancati dalla neve. A destra i discorsi della gente: strana quella ragazza, non sorride più, a sinistra balconi chiusi. Davanti giorni interminabili per un cammino duro e faticoso. Sopra, un cielo pieno di pioggia, e poi di sole, e poi ancora di pioggia e sole. Infine solo pioggia. E ancora a destra sguardi indifferenti, a sinistra mani in tasca. A destra spalle girate, a sinistra teste chine. Davanti, su nel cielo, la notte, e lei a chiedersi: ma dove sto andando, verso cosa, verso chi? E all’inquietudine di quei giorni rispondeva in modo assurdo e privo di senso: accenderò le luci di posizione, prima anabbaglianti, poi abbaglianti. Sì! la notte la contrasterò. E il giorno? Il giorno rimarrò rinchiusa dentro la macchina.
Finché era in viaggio dentro la macchina si sentiva al sicuro, protetta. Perché lì nessuno poteva vedere il suo dolore, così vivo, così evidente. I vetri la schermavano dagli attacchi delle immagini, dai suoni e dalle stagioni. Se pioveva poteva accendere il tergicristallo, se c’era il sole abbassare il parasole, se c’era freddo accendere il riscaldamento, se faceva caldo il climatizzatore. Se era spaventata poteva spegnere il motore e interrompere il viaggio, chiudere gli occhi e sognare. Sognava che stava andando verso il mare, lungo una spiaggia ricoperta di conchiglie. Lì addormentarsi stesa sulla sabbia e restare immobile. Rimanere immobile era il suo segreto per poter ripartire. Così come fanno certi insetti che per non farsi sorprendere da un predatore rimangono fermi, mimetizzati. Lì distesa sentirsi parte del cielo, del mare, una conchiglia; nascosta alla mala sorte che la stava cercando e che in quei giorni sentiva vicina. Tutto allora scivolava via lungo quei chilometri attraversati nell’attesa: sperando e piangendo. Per poi sorridere, quando dopo mesi, finalmente poté toccarlo, accarezzarlo e dire: aveva ragione la mia amica, è bello, piccolo ma bello, ben fatto, proporzionato. È il mio bambino.

L’ultimo giorno di ricovero all’ospedale, sul giardinetto antistante l’ingresso si fermò per pochi istanti prima di entrare, per girare lentamente su se stessa come una trottola. Prima piano, poi sempre più forte fino a stordirsi e con le braccia rivolte al cielo. Poi di colpo ferma, a fissare lo sguardo su un geranio rosso. Fu quello l’ultimo sguardo che poté dedicare, senza distrazioni, alla natura, al cielo, al mondo; l’ultimo momento da sola, con se stessa, in cui si amò, tanto d’averne vergogna. Di lì a poco lei e il suo bambino sarebbero tornati a essere insieme. Lui accanto a lei, lei insieme a lui ... per sempre.
A distrarla da quell’incanto si presentò un uomo in camice bianco che le disse: “Signora!... cosa fa? venga!
Ad attenderla in reparto c’era un medico che la fece sedere e la informò sulle cure da seguire a casa. Poi le consegnò un foglio e la invitò a prendere A fra le braccia.
Ancora un foglio, leggero, bianco; ancora poche parole per definire un percorso di vita già tracciato e solo da seguire. E per la prima volta fra le sue braccia il suo bambino.
Con quel gesto Sara riprendeva su di sé la realtà, la sua maternità, la sua gravidanza, il suo parto prematuro; toglieva dalla barca di Caronte il suo bambino per traghettarlo verso la terra dei vivi, sulle onde della vita.

Giunta a casa aprì la porta. Io ero lì ad attenderla. Mi guardò e con lo sguardo perso nel vuoto disse: come farò? Le risposi: come tutte le mamme del mondo, solo con più passione, tenerezza.
Non sarà facile!
Hai ragione. Non sarà facile.
Se almeno mio padre fosse ancora vivo, mi sentirei più forte.
Le risposi: ma tuo Padre è vivo!
Forse! ma bisogna crederci.
Già ! bisogna credere.
Il dolore è severo e distrugge ogni dolce pensiero.
Non sarà facile. No, non sarà facile.

Dare senso alla sua vita e a quella di A, trovare sentieri giusti per attraversarla, è stato l’impegno e l’inquietudine più grande che ha vissuto nei primi anni. Era in uno stato di continuo imbarazzo, di inadeguatezza. Mentre il lavoro di mamma la impegnava fisicamente, il pensiero di “credere” la turbava interiormente, perché credere non è come sperare, credere è solo credere, poi non c’è nient’altro, o meglio c’è solo incondizionata silenziosa accettazione. E lei ancora non sapeva cosa doveva accettare, perché l’emorragia celebrale che aveva colpito il suo bambino avrebbe mostrato le conseguenze solo nel tempo. Pensava, a volte, che se solo credeva poteva anche sperare che un giorno lui avrebbe potuto camminare, vedere, parlare.
Ma credere non è facile, è casa difficile da abitare e richiede saggezza: un luogo che non lascia spazio a sguardi persi nella notte, a dubbi, a domande che vogliono risposta.
E a quella età non si è saggi, ma solo giovani. Pieni di progetti, di voglia di spensieratezza e di felicità. E si desidera tutto, si vuole tutto. Quasi fosse un tempo franco della vita, la giovinezza fa pensare che non ti può succedere nulla di brutto, meno che mai soffrire, morire; nulla che ti impedisca di essere felice. Credi sì, ma solo in te stesso. Perché ti senti forte, invincibile e immortale.

Aiutatemi, aiutatemi a credere che c’è un Dio che avrà pietà di me e del mio bambino.
Così gridava perché tutt’intorno alla sua storia sembrava esserci solo silenzio. In fondo ciò che desiderava era solo farsi una famiglia, amare e essere amata. Quell’evento invece aveva messo sottosopra l’ordine dei suoi sogni, delle speranze e degli affetti. In lei ora c’era solo disordine, pensieri e desideri che a volte erano anche violenti e crudeli.
Tutto ora si stringeva intorno al suo bambino, si aggomitolava su di lui, e il gomitolo, da piccolo, diventava sempre più grande, pesante e ingombrante. Come le attrezzature per la ginnastica e la postura che, giorno dopo giorno, si stavano impossessando dello spazio domestico, mentre l’intimità famigliare se la stava rubando l’esuberanza delle ragazze venute per l’attività di sostegno a quel bambino portatore di handicap. Con il passare dei giorni il disordine interiore diventò anche disagio esteriore, tale da limitare, prima i passi, poi l’intero cammino della sua vita. La trama del suo progetto di vita fu infatti disfatta e riavvolta, punto dopo punto, attorno a quel gomitolo. Ogni giorno sempre più schiacciata su un presente che era anche futuro.

[Il racconto termina con la pagina seguente]

Sara aveva partorito il suo bambino. E non fu lei a decidere il suo lancio sulla vita ma la sorte, la mala sorte. Quattro mesi prima della data prevista per il parto Sara era diventata mamma di A, un bambino bello, ben fatto, proporzionato ma handicappato grave.
A non è una favola, ma la mia vita.” Così iniziava la lettera che Sara scrisse al Giudice tutelare all’indomani del compimento del diciottesimo anno di età di A. La lettera poi così terminava: “Signor Giudice io posso continuare a ricamare la sua vita, seguirne l’evoluzione, elevare la sua dignità attraverso il mio quotidiano dolore, lo stesso che ci ha accompagnato per diciotto anni, e sui tasti più acuti del nostro dramma, del nostro dolore, comporre una canzone. Lo so, in lui non c’è genialità ma solo un’ombra; un’ombra di cui lei, e con lei nessuna altra autorità al mondo, potrà mai svelare il mistero. Un’ombra che mi appartiene perché generata della mia stessa vita. Signor Giudice, non permetta che la mia Passione diventi collera.
Con questa lettera Sara chiedeva che, a quel passaggio burocratico di età, A non fosse bollato come incapace di intendere e di volere. Chiedeva per sé il riconoscimento di “amministratore di sostegno”, e per A quello di rimanere persona. Diciotto anni, la maggior età; A però le aveva fatto la promessa che sarebbe rimasto per sempre un bambino.
E quella promessa A l’ha mantenuta. Per Sara lui è e rimarrà un bambino che chiede solo baci, carezze. Che è e che comprende Amore.



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